Il Pantheon celtico

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    Il Pantheon celtico



    panth_celta



    “Ogni civiltà è tormentata, in modo visibile o invisibile, da ciò che
    pensa della morte”

    André Malraux
    Antimemorie



    “ Il dio che essi onorano di più è Mercurio: le sue statue sono le più
    numerose, essi lo considerano come l’inventore di tutte le arti, è per
    essi il dio che indica la rotta da seguire, che guida il viaggiatore, è
    colui che maggiormente è capace di far guadagnare denaro e di
    proteggere il commercio. Dopo di lui, adorano Apollo, Marte, Giove
    e Minerva. Hanno di questi dèi pressappoco la stessa idea che ne
    hanno gli altri popoli: Apollo guarisce le malattie, Minerva insegna i
    princìpi delle opere e delle tecniche, Giove è il signore degli dèi,
    Marte presiede alle guerre.”

    (De Bello Gallico, VI, 17)



    Nonostante ciò che dice Giulio Cesare, è difficile pensare che i Galli avessero credenze simili a quelle dei Romani e dei Greci. Piuttosto, il proconsole romano sembra assumere come riferimento gli dèi romani e greci per descrivere la religione gallica. Rimane in ogni modo il fatto che Cesare cita un dio maggiore (che non è Giove), altri tre dèi di minore levatura e una dea.
    Anche in questo caso l’epico racconto irlandese de La seconda battaglia di Mag Tured ci viene in aiuto; infatti, lo stato maggiore dei Tuatha Dé Danann costituisce un repertorio quasi completo del pantheon celtico. Il Mercurio gallico di cui parla Cesare si riferisce al dio Lugos o Lugu, nome che è stato utilizzato per formare toponimi di città importanti come Lione (Lyon), Loudun, Laon, Leyda (Leyde), che per i Celti erano dei lugudunum (“fortezze di Lugu”). L’animale sacro di cui Lugu si serviva era simboleggiato dal corvo. I Galli romanizzati rappresentarono di Lugu solo il carattere di protettore dei commerci, mentre i Celti esaltavano soprattutto il suo multiforme carattere di guerriero, e solo dopo quello d’artigiano e commerciante. Lugos o Lugu, così come il Lug guerriero della Battaglia di Mag Tured, non era un semplice guerriero, ma un dio-mago (o dio-druido) che padroneggiava tutte le arti: sapeva suonare l’arpa, comporre poesie, costruire case, forgiare il ferro e vincere le battaglie con la forza e la magia. Tutte queste qualità fecero di Lugu il principale dio dei Celti, che lo festeggiavano il giorno di Lugnasad (il primo agosto).
    Come seconda divinità gallica, Cesare menziona Apollo affermando che è in grado di guarire le malattie. Esiste nella mitologia irlandese un equivalente dell’Apollo guaritore; si chiama Diancecht ed è anch’egli nello stato maggiore dei Tuatha Dé Danann. Egli ha il potere di rimettere in piedi i morti con la sua arte magica a meno che, a questi ultimi non fosse stata tagliata la testa. A causa di questa credenza si comprende perché i Celti tagliavano le teste dei loro nemici uccisi in battaglia.

    Apollo era associato dai Romani e dai Greci solitamente al culto solare; questo riporta ad alcune iscrizioni rinvenute ad Aquileia, nel nord dell’Italia, dove erano stanziati i Nòrici, e ad altre trovate nel sud della Francia. Esse parlano di un Apollo-Grannus o Apollo-Belenus; ambedue le forme sono un richiamo all’aspetto solare. Grannus ha dato il nome a Grand, nei Vosgi, e anche ad Aix-la-Chapelle che è un antico Aquae Granni (acque o fonti di Grannus), luogo sacro del suo culto. Sembra assai probabile che il nome Grannus sia apparentato alla parola irlandese grian che significa Sole. Belenus o Belenos va invece collegato alla festa del primo di maggio, Beltaine (letteralmente “i fuochi di Bel”), giorno speciale per i Celti e ancor oggi per gli Irlandesi, giorno in cui i Tuatha Dé Danann sbarcarono in Irlanda. Belenus significa “brillante”, che è un chiaro collegamento all’aspetto solare del dio Apollo. Anche questo nome è stato utilizzato per formare toponimi: la celebre fontana di Barenton, nella foresta di Paimpont-Brocéliande, aveva un tempo il nome di Bélenton, da Bel-Nemeton che vuol dire “radura sacra di Belenus”; il Mont-Saint-Michel du Peril de la Mer, un tempo si chiamava Tombelaine, da Tum-Belen che vuol dire “tumulo di Belenos”.
    In quest’ultimo caso, la sostituzione del dio “brillante” Belenos con l’arcangelo di luce Michele è un segno della cristianizzazione dei culti celtici. L’Apollo celtico, nel suo aspetto di Belenos, pone però alcuni problemi. Il complesso di Stonehenge, segnalato come tempio solare, è stato edificato incontestabilmente in rapporto al sorgere del Sole nel solstizio d’estate. La pietra centrale del monumento, che è chiamata “l’altare” è, in effetti, colpita dai primi raggi del Sole levante al 21 di giugno, che attraversano una serie di “triliti”. La stessa cosa vale per gli allineamenti megalitici di Carnac, le cui linee direzionali sembrano in rapporto con diversi punti relativi al sorgere del Sole. Come si è visto in precedenza, però, questi monumenti sono dovuti a popolazioni preceltiche dell’Età del Ferro e del Bronzo. Da studi archeologici è noto che l’Età del Bronzo del nord Europa è stata il punto culminante del culto solare. Va invece notato che non vi era alcuna festa celtica ai solstizi o agli equinozi, per questo l’aspetto del dio Belenos potrebbe essere il rappresentante celtizzato della religione solare dell’Età del Bronzo. Belenos ha inoltre un equivalente femminile, Belisama, dal superlativo celtico che significa “molto brillante”, dal cui nome deriva il toponimo della città di Bellême (Orne). La nomenclatura di Cesare colloca Marte al terzo posto attribuendogli le abituali funzioni guerriere. In realtà il Marte gallico ha molteplici soprannomi, a seconda dei casi e delle regioni. Quelli più interessanti sono: Smertrios, Segomo, Camulos, e talvolta Toutatis (o Teutates). Smertrios ha attinenza col verbo “fornire” o “distribuire” e si applica sia ai prodotti della terra sia alla spartizione del bottino di guerra. Segomo, “colui che dona la vittoria” dà un’immagine conforme a ciò che si richiede ad un dio della guerra. Marte-Camulos è uno dei soprannomi più diffusi nel dominio celtico; esso ricorre nella principale città dei Trinobanti dell’Essex (Gran Bretagna), che si chiama Camulodunum. Il radicale cam ha il significato di “curvo” o “tortuoso”, forse un’allusione ad una sofisticata tattica militare.
    Il soprannome Teutates o Toutatis ricorre in alcuni passi de La Farsaglia, opera in dieci libri sulla guerra tra Cesare e il suo avversario Pompeo, scritta da Marco Anneo Lucano (Cordova 29 d.C. - Roma 65 d.C.) morto per ordine di Nerone. Lucano inserisce Teutates nella triade divina del popolo celta insieme ad Esus e Taranis. Il suo nome ha il senso di “protettore della tribù”.

    Come il Marte latino era sdoppiato, ad un tempo dio protettore della pace e dio condottiero della guerra, così i Celti vedono nel loro Marte una doppia personalità. Nell’epico testo della Battaglia di Mag Tured sono impersonate dalle figure del re Nuada e del suo campione Ogmé, appartenenti entrambi al popolo dei Tuatha Dé Danann. Ciò richiama alla mente l’immagine del dio Ogmios, il dio dell’eloquenza, dei canti selvaggi e delle urla prima della battaglia. Si comprende così il terrore che attanagliava anche i Romani nel vedere arrivare le orde celtiche con i loro canti ed urla selvagge accompagnate dal frastuono dei trombettieri. Nella nomenclatura di Cesare, Giove appare soltanto al quarto posto ed è rappresentato dal dio Dagda (chiamato in alcuni casi Gargantua) che ha un omonimo nello stato maggiore dei Tuatha Dé Danann. Il nome deriva dall’antico celtico Dagos-Devos che significa “buon dio” o “molto divino”. Dagda era il padre di tutti, dio della prosperità e della sessualità; dio dalla doppia clava, dall’arpa magica e dal calderone. Come la sua clava era capace di uccidere e dare la vita, così egli assumeva la doppia immagine di Juppiter, dio della vita e signore del cielo, e di Dis Pater, dio della morte, signore della notte e del mondo sotterraneo.

    “Tutti i Galli sostengono di essere generati da Dis Pater (Dagda). É,
    dicono, una tradizione dei druidi. In ragione di tale credenza, essi
    misurano la durata, non secondo il numero dei giorni, ma secondo
    quello delle notti. Gli anniversari di nascita, l’inizio dei mesi e degli
    anni, sono contati facendo cominciare la giornata con la notte.”

    (De Bello Gallico, VI, 18)



    Ciò rende conto di un gran numero di costumi notturni dei Celti e sul loro uso di un calendario basato, non sul ciclo solare di giorno-giorno, ma di un ciclo lunare notte-notte. Al quinto posto Cesare nomina Minerva, la figlia di Giove, la casta dea, la druidessa bianca che era rappresentata da una dea dal triplice volto (o triplice dea), incarnazione stessa del druidismo. Essa era in primo luogo la protettrice dei poeti, dei fili (maghi) e dei medici. In secondo luogo era la protettrice degli artisti, degli artigiani e dei fabbri. Infine era la protettrice dell’arte militare, dei guerrieri e della fecondità. Tutte queste qualità sono incarnate dalla figura mitologica di Brigit figlia del re Dagda, proprio come Minerva è figlia del re degli dèi, Giove. Dal suo nome proviene il toponimo della città francese di Briançon. I Celti la festeggiavano il primo giorno di febbraio (festa di Imbolc); in tale data, ancora oggi, gli Irlandesi rendono omaggio a Santa Brigitta di Kildare2. Come si è visto in precedenza, lo scrittore latino Marco Anneo Lucano, ne “La Farsaglia”, nomina una fosca trinità, quella composta da Esus, Teutates e Taranis. Esus era il dio buono, taglialegna e uomo dei boschi. Teutates era il dio della guerra e delle battaglie, protettore dei beni e della tribù. A lui erano sacrificate vittime umane, generalmente prigionieri, che erano uccise per soffocamento, immergendo le loro teste in un paiolo colmo d’acqua. Vi era infine Taranis o Tanaris, dio del tuono, che era rappresentato con una ruota. Tanaris deriva probabilmente dal termine brittonico tan che significa “fuoco”. A questo dio erano sacrificati i prigionieri bruciandoli in recipienti di legno (botti o fasci di vimini). Dal termine tan deriva anche l’iscrizione “Tanaros” ritrovata a Chester (Gran Bretagna) e, molto probabilmente, il toponimo Tànaro, fiume del basso Piemonte (Italia). Oltre quelli già descritti, vi erano una miriade di altri dèi e dee, alcuni a carattere tribale o, addirittura, di tipo familiare. Tra questi c’era Cernunnos (o Kernunnos), il dio dalle corna di cervo, simbolo dell’abbondanza, che appare probabilmente raffigurato sul celebre calderone d’argento di Gundestrup (Danimarca). C’era poi la gallo-romana Epona (o Ekwona), dea cavallerizza; il dio Govannon (nome simile a Goibniu, che appare come il dio- fabbro dei Tuatha Dé Danann); Amaethon (“figlio dell’aratro”) protettore dell’agricoltura, dal gallico Ambactos (“servitore”), che mostra come l’agricoltura fosse considerata dai Celti una funzione subalterna, affidata non ai cittadini ma a servitori o a schiavi. Vi è poi Elcmar (o Nechtan), dio delle fonti; ma stranamente non vi è per i Celti nessun dio del mare come il romano Nettuno o il greco Poseidone.

    Come si è visto, il numero tre ha goduto di particolare favore presso i Celti (la triade Esus- Toutatis-Taranis, o la triplice dea Brigit). A questo riguardo l’autorevole Encyclopedia of Religion dice:

    “L’elemento più importante del simbolismo celtico è probabilmente il
    numero tre; la rilevanza mistica del concetto di triplicità si trova
    quasi ovunque nel mondo, ma i Celti sembrano averla sentita in modo
    particolarmente vivo e costante nel tempo”.



    Questo numero era per i Celti il numero dell’eternità e della totalità. Concepire una divinità come trina o avente tre volti, equivaleva a considerarla onniveggente e onnisciente. Statue a tre facce o tre teste erano messe all’incrocio di importanti vie di comunicazione, forse allo scopo di “sorvegliare” i traffici. Ancora oggi, nelle zone in cui sono state rinvenute sculture delle divinità trine celtiche, nelle chiese della cristianità la trinità è rappresentata nello stesso identico modo. Goibniu, il fabbro dei Tuatha Dé Danann, forgiava spade e lance con soli tre colpi di mazza. Infine, non va dimenticato che nei testi mitologici medioevali, l’Irlanda è talvolta personificata da tre personaggi femminili come Eriu, Banba e Fotla.

    Fonte: Edizioni Gennari & veneziano
     
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