Caterina de Medici e la Stregoneria

8 aprile 2013

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    Caterina de Medici e la Stregoneria



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    Cenni storici da: Panorama Editoriale.

    Cinque secoli di Inquisizione: roghi, vendette e processi sommari



    Processo per stregoneria a Caterina de Medici, da poco riedito da BookTime e a firma di Giuseppe Farinelli ed Ermanno Paccagnini, rievoca la storia di uno dei processi più noti

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    di Filippo Maria Battaglia
    L’ultimo ad occuparsene è stato lo scrittore spagnolo C. W. Gortner, in un romanzo pubblicato qualche mese fa da Corbaccio. Ma da Verri a Sciascia, passando per Cantù e Nicolini, la pubblicistica storica e la produzione letteraria è piena zeppa di riferimenti al martirio di Caterina de’ Medici e al suo processo per stregoneria che la portò a morire bruciata a Milano il 4 marzo 1617. Ora quella vicenda torna al centro di un documentatissimo saggio (Processo per stregoneria a Caterina de Medici , da poco riedito da BookTime e a firma di Giuseppe Farinelli ed Ermanno Paccagnini) che ne rievoca la storia, pubblicando integralmente gli atti. Per gentile concessione dell’editore, anticipiamo qui sotto un estratto, a firma di Paccagnini, sulla nascita dell’Inquisizione.
    Milano, convento di Santa Maria delle Grazie. Qui, nel cortile, tra il giugno e l’agosto 1788, per volere dell’imperatore Giuseppe II si accende l’ultimo rogo dell’Inquisizione. Ma questa volta le fiamme non consumano una vita umana; a bruciare sotto gli occhi attenti del delegato arcivescovile monsignor Gambarano, degli ufficiali del pubblico registro e dell’archivista della giunta economale è la storia stessa dell’istituzione inquisitoriale milanese e lombarda: quasi cinque secoli di piccole e grandi vicende che son venute depositandosi con pignoleria su faldoni, fogli sparsi, registri, tutti quanti ben raccolti e ordinati in un centinaio di cassette catalogate. E, a loro volta, in quelle carte: missive con Roma e nomi di bestemmiatori, eretici, sodomiti, streghe, titoli di libri condannati ed Editti generali dell’Inquisizione lombarda, faldoni processuali e registri di processi; tutto quanto ritorna puntualmente in un elenco stilato per semplici motivi burocratici, sul cui margine si legge però una sigla impietosa per lo storico: «È stato abbruciato tutto».
    Si chiude così la storia dell’Inquisizione milanese, a sei anni dalla analoga fine delle inquisizioni minori, tra cui quella comasca che aveva giurisdizione anche su Mantova e Pontremoli, della quale pure si conservano i verbali dell’«abbruciamento» decretato nel 1782. L’ultimo rogo milanese riguarda quindi una immensa mole di carta che porta quali date estreme «1314-1764», la prima delle quali suona comunque tarda rispetto alla reale attività giudiziaria dell’Inquisizione a Milano, i cui inizi, stando al Cathalogus chronologicus fidei questor Mediolani, risalgono assai più indietro, ad almeno cento anni prima: a quel 1218 che quasi coincide con gli albori della stessa istituzione.
    Non è certo qui il luogo per ripercorrere la difficile storia delle sue origini e del suo sviluppo, che si perde tra bolle decretali e incarichi commissariali e che sin dall’inizio – con la conferenza di Verona del 1184, cui partecipano Federico Barbarossa e papa Lucio III, e con la successiva decretale Ad abolendam, che fissa stabilmente le modalità repressive – sceglie di legarsi al braccio secolare per la persecuzione degli eretici che in quel periodo paiono imperversare dapprima in terra di Francia e, quindi, in Lombardia. Poi, è solo questione di perfezionamento, con lo scopo di farne lo strumento privilegiato della repressione ereticale; e in tale opera un posto di rilievo spetta certamente a papa Gregorio IX, autore oltretutto di una serie di bolle assai significative riguardanti sia l’attività degli eretici in Lombardia, sia le prime formulazioni antistregoniche di mano papale.
    Così col breve del 22 aprile 1233 il pontefice affida la cura della regione (con giurisdizione su tutto il Nord Italia) all’ordine domenicano, affiancandolo in tal modo ai vescovi, sino a quel momento titolari dell’azione penale. Due mesi più tardi, con la bolla Vox in Rama del 12 giugno 1233, lo stesso Gregorio IX pronuncia la sua prima condanna delle pratiche peccaminose di talune popolazioni germaniche che, stando agli informatori, si dedicherebbero a riti notturni, nel corso dei quali bacerebbero l’ano di rospi della grandezza d’un’oca o di gatti neri, renderebbero omaggio «a un uomo di pallore spaventoso», e si abbandonerebbero «alla lussuria più sfrenata, senza distinzione di sesso», compiendo sacrilegi con ostie consacrate e chiamando «padrone» uno strano «luminoso personaggio» che prende posto in mezzo a loro.
    Nella bolla è praticamente già racchiusa buona parte degli atti che troveranno poi posto nelle confessioni degli imputati di oltre cinque secoli e che sin da quella data si considerano assai più diffusi di quanto la semplice destinazione germanica della bolla potrebbe far ritenere. E infatti sei mesi più tardi, e precisamente il 10 dicembre 1233, Gregorio IX emana una nuova bolla, la Dilectis filiis universis, che ritorna sul problema, sia pur considerandolo in un’ottica più prossima alle deviazioni ereticali catare, e per questo motivo indirizzata proprio a quei «meritevoli inquisitori della città e diocesi milanesi impegnati contro le dottrine demoniache e le profonde novità delle voci che preparano la strada al diavolo e all’anticristo». L’attestato papale è assai significativo, perché il 1233 è anche l’anno in cui il podestà Oldrado da Tresseno, lodigiano, «secondando le mire dell’Inquisizione, consegna alle fiamme non pochi cittadini».
    E in effetti la Lombardia non sembra tardare ad assumere una posizione privilegiata nell’ottica della devianza ereticale. Nel 1244 l’imperatore Federico II, nel concedere agli inquisitori apostolici la facoltà di esercitare liberamente, in ambito imperiale, il proprio esercizio, non manca di sottolineare come questo debba essere praticato con maggior cura proprio «nei territori della Lombardia, nei quali abbiamo appreso con certezza che la nequizia ereticale abbonda ampiamente». Nella regione si muovono all’epoca almeno quindici sette ereticali, e questa proliferazione contribuisce, a partire dagli anni Trenta, da un lato all’emanazione di nuove leggi penali contro gli eretici (con pene capitali e distruzione di case sia per i colpevoli, sia per i loro fiancheggiatori, e invece libertà accordata ai cittadini di arrestare ogni presunto eretico), e dall’altro alla moltiplicazione del numero degli inquisitori che si muovono sul territorio.
    Questi passano ben presto da due a quattro, quindi a dieci, sino a pervenire a una suddivisione territoriale e alla nomina di singoli inquisitori stanziali, autorizzati ad agire su una giurisdizione che comprende Milano, Como, Cremona, Lodi, Mantova, Pavia, Bergamo, Parma, Piacenza, Novara, Vercelli, Casale, Tortona e Alessandria.
    Il fenomeno di cui tale istituzione si occupa in prevalenza resta quello delle grandi eresie; e anche se questo secolo XIII vede via via accumularsi nelle bolle i richiami ai fenomeni di divinazione e sortilegio, tali manifestazioni stregoniche non paiono però mai assumere una dimensione autonoma e ben definita. Ovviamente questo non impedisce che vengano intraprese azioni giudiziarie rivolte esplicitamente in tal senso. Anzi, per rimanere in Italia e con un personaggio di origine lombarda, si può richiamare il processo istruito sin dal 1109 dal beato Landolfo da Vergiate, vescovo di Asti, il quale, in occasione di una pestilenza che giunge a mietere ventottomila vittime, viene a conoscenza che parecchie donne hanno appreso da alcuni chirurghi forestieri in servizio presso la città la pratica della magia. Ritenendo che la impieghino ad amorem e ad mortem tramite venefici, non esita a denunciarle al magistrato e a farle processare, nonostante l’appartenenza di talune di esse alla nobiltà; e solo al momento di salire sul rogo, commuta loro la pena, ma unicamente per evitare conseguenze politiche negative in Asti.
    Una vera e propria attività processuale sembra dunque ancora di là da venire in modo autonomo; e in tal senso pare anche di poter leggere il formulario di interrogatori contenuto nella anonima Summa de officio Inquisitionis (1270 circa) e, soprattutto, le indicazioni che Bernardo Gui offre qualche decennio più tardi nel suo Manuale dell’Inquisitore, a sua volta base di tanti altri analoghi trattati, a partire dal ben più citato Directorium Inquisitorum di Nicola Emmerich, benché non sia mai uscito da uno stadio di circolazione manoscritta. Il Gui dedica gran parte del suo Manuale alla recensione e descrizione delle più celebri sette eretiche del tempo (Manichei, Catari, Valdesi, Beghine, Pseudoapostoli), nonché agli Ebrei, e limita solo pochi passi del breve capitolo VI all’«errore pestilenziale di sortilegi, divinazioni e invocazioni» caratterizzato da varietà e molteplicità di manifestazioni «in diverse terre e regioni».
    L’inquisitore cura allora di codificarle ad uso pratico di una attività processuale e offre in tal modo una prima casistica all’interno del problema; si ottiene così un documento che procede oltre le pur fondamentali indicazioni contenute nel celebre Canon Episcopi, la breve istruzione data ai vescovi prima dell’anno Mille sull’atteggiamento da assumere nei confronti dell’antica credenza della Compagnia o Società di Diana che, per ciò stesso, viene a costituire insieme la descrizione e l’attestazione ufficiale da parte della Chiesa di un fenomeno stregonesco ancora di parecchio debitore del culto pagano.
    Nel decreto, con tono oltretutto scettico, si condanna la superstizione di chi è disposto a credere al volo notturno delle donne al seguito di Diana, la cui Società sembra comunque avere un carattere sostanzialmente benefico. Gui invece non si limita a questo fenomeno delle «fate, che essi chiamano buone cose, le quali, a loro dire, vanno in giro di notte», ma tratta esplicitamente di incantesimi su neonati e bambini; di magie in ambito familiare; di ingravidamento di donne sterili; di filtri fabbricati con peli, unghie e simili parti del corpo; di incantesimi e scongiuri «con canti, frutti, erbe, corregge» impiegati anche per la cura delle malattie; di pratiche variamente superstiziose come «la raccolta di erbe fatta con le ginocchia piegate e col viso rivolto a oriente mediante l’orazione domenicale» oppure di semplici preannunci di eventi futuri. Ma il vero passo avanti di Gui (oltre che della citata Summa) sta nella registrazione anche di eventi più propriamente blasfemi, destinati a divenire elemento centrale di ogni inquisizione stregonica.
    L’imputato, suggerisce l’inquisitore domenicano, «sia interrogato soprattutto a proposito di quanto sa di una qualunque superstizione o di irriverenza o di offesa nei confronti dei sacramenti della Chiesa, particolarmente del sacramento del corpo di Cristo, nonché a proposito del culto divino e dei luoghi sacri; parimenti, circa l’Eucaristia conservata e circa il crisma ovvero olio santo rubati dalle chiese»; oltre, naturalmente, l’effettuazione della invocazione dei diavoli, accompagnata da «un sacrificio o immolazione in onore del demonio».
    Tra le varie voci elencate da Gui, una merita poi particolare attenzione, anche per la qualità delle persone che proprio in quegli stessi anni di stesura del Manuale (1320 circa) si divertono a praticarla: i riferimenti alle «immagini di cera o d’altra materia battezzate» e alla «fabbricazione di immagini di piombo» a scopo di maleficio. E questa pratica necromantica della fabbricazione, a scopo malefico, di statuette di cera che si inserisce nel bel mezzo di una disputa d’alto livello che vede protagonisti papa Giovanni XXII e Matteo Visconti, signore di Milano. La contesa, sia ben chiaro, è essenzialmente politica, e ha come oggetto il riconoscimento o meno della signoria ghibellina dei Visconti a Milano da parte del pontefice. Contro il presunto usurpatore il papa decide di aprire un’azione giudiziaria il 25 febbraio 1322 a Bergoglio, presso Alessandria, nella chiesa di Santa Maria; ma davanti alla minaccia di Marco Visconti, figlio di Matteo, il tribunale dell’Inquisizione deve rifugiarsi frettolosamente a Valenza. Qui pronuncia la sua sentenza di condanna, elencando come motivazione venticinque delitti. Fra questi torna la ripetuta accusa «de pessimis criminibus, et de haeresi» e di aver in più occasioni «esecrabilmente invocato» i demoni con cui avrebbe fatto lega; né manca l’imputazione di aver frapposto ostacoli alle attività degli inquisitori; ma una delle principali pare quella di aver praticato i sortilegi e di esercitare l’arte necromantica.
    L’accusa inquisitoriale ha un riferimento preciso: il presunto tentativo criminoso che Matteo avrebbe messo in atto nei confronti del pontefice stesso, mediante l’invio ad Avignone di una statuetta di cera malefica, alla cui sola vista il papa sarebbe dovuto morire. Ora, questa delle statuette di cera pare un’arte che nel milanese e nella stessa corte dei Visconti ha ben più d’un cultore. Anche Galeazzo Visconti può qualificarsi come erudito in tale pratica, grazie agli insegnamenti di Leonardo da Saliceto, e dilettarsi a preparare incantesimi mediante il riporre ritratti di persone dentro dei cerchi o degli anelli, per poi trapassarli con coltelli mentre invoca gli spiriti. Non solo; come dice l’atto processuale, oltre a essere stato a sua volta protagonista nel «gioco delle magiche frodi» intorno a una statuetta raffigurante Giovanni XXII, non avrebbe esitato a coinvolgere anche personaggi come «il maestro Dante Alighieri fiorentino, per eseguire lo stesso incanto mortale».
    Si tratta, dunque, di attività fiorenti ai livelli più alti, e dalle quali non va immune neppure la corte papale di Avignone e neanche lo stesso Giovanni XXII; e si può forse spiegare in tal modo l’assenza di documenti di natura processuale per pratiche che di certo godono di larga popolarità anche tra i ceti bassi; quasi che in un primo tempo le autorità ecclesiastiche non prestino, più che tanto, attenzione al fenomeno, almeno dal punto di vista canonico. In tale direzione sembrano andare, per esempio, le bolle di Alessandro IV datate 13 dicembre 1258 e 10 gennaio 1260. Essendogli posti dei quesiti dagli inquisitori francescani e domenicani operanti in Italia, il papa risponde esortandoli ad intervenire solo nel caso in cui la pratica della divinazione e del sortilegio si allontani dalla semplice superstizione e tenda a qualificarsi come manifesta eresia. E le formulazioni di Alessandro IV vengono riprese quasi testualmente, un trentennio più tardi, da papa Nicola IV nella bolla del 23 dicembre 1288 relativa alle diocesi di Arles, Aix ed Embrun, dalle quali gli era pervenuta una richiesta dello stesso tenore.

    Link: http://cultura.panorama.it/libri/Cinque-se...rocessi-sommari
     
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